07 settembre 2009

Prefazione del volume “Lame e affini” di Susanna Trossero — edizioni Graphe.it (2008)

Il mondo per Montaigne è un labirinto in cui le false apparenze hanno corso legale. La verità, per quanto la pensasse classicamente come conforme e costante, è avvolta in un groviglio di illusorie presenze.
Riportarsi costantemente a queste apparenze, metterle alla prova della cultura costituisce il movimento stesso della vita, che non trova mai un piano in cui essa si possa situare, come una ragione ultima e definitiva.
Nemmeno la morte è, infatti, un arresto, ma un'esperienza interna alla vita.
Questa meritoria raccolta di racconti di Susanna Trossero pare indurci a riflettere che il dubbio vissuto come antidoto all'abitudine strappi via le maschere che coprono il reale. Ma questo io dubitante non fonda alcuna metafisica. L'io è una folla. E dunque non è mai possibile trovare una sintesi, una verità, ma soltanto una composizione, una mescolanza, un'anomalia.
Nei racconti della scrittrice sarda fa capolino la necessità di percorrere “le vie laterali alla verità” — ultimo avamposto per evitare le secche delle controverse e umane false apparenze.
È risaputo che fare della buona letteratura è come nuotare sott'acqua tenendo il fiato. E allora il lavoro quotidiano di uno scrittore è proprio questo deliberato rivoltare — il terribile e informe mucchio delle parole.
Noi sappiamo che l'aggettivo deve essere l'amante del sostantivo e non già la moglie legittima. Tra le parole ci vogliono legami passeggeri e non di matrimonio eterno. Nella prosa dell'autrice si sente, fortissimo, il gusto d'inseguire le frasi senza il supporto di una trama, il piacere di produrre la forza della sonorità al di là del significato. Scrive senza sapere dove la storia andrà a condurla. È un'Arianna che segue il filo che si svolge in quel momento davanti ai suoi passi. Anche per questo la sua scrittura si nutre di ossimori che accoppia, fondendoli, in una sintesi assolutamente originale di chimica emotiva.
La scelta dei racconti è un buon contributo all'assodamento della fraternità di Susanna Trossero con coloro che patiscono la vita. Le ferite che infligge, la sua indecifrabilità, l'impotenza o la fatica a fronteggiarla. Non sarebbe difficile ricavare da queste pagine un repertorio di temi rappresentativo del male di vivere, delle più banali angustie umane che, attraverso il filtro della personalità della Trossero, si propongano più chiare e acute.
I suoi personaggi sono tutti al centro di un perpetuo fraintendimento: l'importante è capire che tutto va avanti e che ciascuno intende la realtà in maniera diversa.
L'andamento della prosa della Trossero è una serie di fatti inalterabili, un ciclo che si compie. La sua scrittura non può che girare in quel modo, in virtù del fatto che lei pare pensare che non ci siano storie senza senso, perché è una donna-scrittrice che sa trovarlo anche là dove gli altri non lo vedono.
Il merito maggiore di questa giovane scrittrice è che possiede uno sguardo che vede tutto, anche il particolare più trascurabile, ma dall'alto, e perciò con straordinaria energia sintetica; ha la densità adamantina dello stile, che evita per automatismo naturale ogni indugio nella chiacchiera o nel puro ornamento; ha il potere — che è solo di certi grandi poeti — di chi specchia la realtà concreta come se la fotografasse col più sensibile degli apparecchi e, al tempo stesso, la tramuta in favola bizzarra, in incubo sinistro, in commedia dei pupi, in delizioso sogno a occhi aperti.
In questo suo continuo giro d'orizzonte sulla vita, tra le osservazioni psicologiche, di un'algida vivisezione, e le visioni d'una spigliatezza sbarazzina, emerge un libro che va alla ricerca di ombre e chiaroscuri, in un affresco in cui si sovrappongono sempre le stesse pennellate e una controllata e implacabile audacia che è un incanto.

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