07 settembre 2009

Nel corso del tempo di Wenders (2007)

Wim Wenders è nato a Düsseldorf il 14 agosto del 1945 , «una settimana dopo il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, il giorno stesso della capitolazione giapponese».
Figlio di un medico, ha studiato medicina e filosofia, e poi pittura e incisione a Parigi. A Monaco frequenta la scuola di cinema e televisione e realizza diversi corti a partire dal 1967.
Il suo primo lungometraggio è il saggio di regia “Summer in the city”, ma il primo film da professionista è “Prima del calcio di rigore” (1971).
Dopo la trilogia della strada (1973-75) , con “L'amico americano” (1977) si guadagna fama internazionale. Nel 1982 con “Lo stato delle cose” vince il Leone d'oro a Venezia. Seguono due palmarès a Cannes: nel 1984 con “Paris Texas” e nel 1987 con “Il cielo sopra Berlino”.
Wim Wenders è uno dei più grandi registi del nostro tempo.
Egli ha dichiarato: «Un film è come il viaggio della torcia olimpica. Un fuoco che va dall'inizio alla fine passando attraverso mani e mani. Ogni immagine di una pellicola che aspira ad una bellezza assoluta rischia di spegnere questo fuoco, non di ravvivarlo. Se si crede troppo nella bellezza e nell'importanza delle immagini, alla fine ti accorgi che quel fuoco è irrimediabilmente spento.»
L'intera filmografia di Wenders si oppone a una rappresentazione del cinema classico, rifiutando la centralità del personaggio, dell'eroe, sottraendosi agli obblighi dell'intreccio, negando le convenzioni drammatiche e gli schemi narrativi tradizionali. Egli agisce sul meccanismo della percezione, sceglie un nuovo modo di guardare le cose.
Se il cinema di Godard fotografa quel grande processo di secolarizzazione che ha caratterizzato l'occidente nel ventesimo secolo, Wim Wenders fa girare vorticosamente la sua macchina da presa, la fa scendere da vette altissime – come nella sequenza di apertura di “Il cielo sopra Berlino” — per catturare nella fredda logica delle sue inquadrature quel processo di riavvicinamento allo spirituale.
In Wenders ci sono gli angeli di cui parla Rilke; gli angeli che popolano i quadri di Paul Klee, l'angelo della storia che passa sulle rovine del mondo di Benjamin. Ma fin qui siamo alla concezione degli angeli tipica di un Cristianesimo “demitizzato”.
Il regista di Düsseldorf, a scanso di equivoci, ha dichiarato in un'intervista a Gianni Canova: «I miei angeli vengono dall'infanzia. Sono gli angeli custodi delle preghiere che recitavo da bambino. Li ricordo come esseri estremamente dolci e gentili.»
Il suo è un linguaggio che tende a recuperare heideggeriamente, l'ontologia del mondo, cioè l'essere al di là del mero apparire.
Il mondo se è pura materia, come sostiene con forza la moderna cosmologia, se è una realtà vuota, allora non resta che il nulla, il naturale approdo al nichilismo.
L'uomo nell'era tecnologica è diventato egli stesso creatore, riconducendo così il mondo verso il nulla.
Il lavoro di Wenders — a partire dagli anni ottanta si è avvicinato sempre di più alla “relatività del pensare” della filosofia post-heideggeriana incarnata da Hans Georg Gadamer, Paul Ricoeur e Luigi Pareyson.
Wenders opera e riesce nell'ambizioso tentativo di conciliare il cinema dei grandi spazi e dell'avventura (di tipo americano) e un cinema più intimista ma anche più intellettuale; coniugare autorialità e spettacolo.
Wim Wenders, in un suo testo dal titolo “To shoot pictures”, dice dell'atto del fotografare: «Una fotografia è sempre un'immagine duplice: mostra il suo oggetto e — più o meno visibile — dietro il
controscatto; l'immagine di colui che fotografa al momento della ripresa.»
Tutto questo si concilia alla perfezione con «Avete mai provato, invece di seguire il pallone e i giocatori, a guardare i movimenti solitari del portiere», vale a dire quel vivere costantemente ai margini della realtà, a lato dell'azione, estraneo ad un mondo che si può solo osservare dall'esterno, soggetto di uno sguardo che si consuma sul vuoto, sull'attesa.
Auguriamo che questo autore prosegua ancora a lungo la sua personale riflessione sul problema della visione da sempre presente nel suo cinema, ma di recente divenuto assolutamente centrale nel suo operare (anche teorico, come testimoniano le numerose dichiarazioni e il volume “L'atto di vedere”. E sottoscriviamo al cento per cento questa frase contenuta nelle battute finali di “Notebook on cities and clothes”: «Filmare, qualche volta, dovrebbe anche essere un modo di vivere come fare una passeggiata, leggere un giornale, mangiare, prendere appunti, guidare l'auto.»

Lo stato delle cose
Anche questo film di Wenders è un caleidoscopio visivo, in cui mescola i generi che si fondono con una trepida riflessione esistenziale.
Presentato nel settembre 1982 alla mostra di Venezia, dove ottiene il Leone d'oro, “Der stand der dinge” viene in realtà realizzato tra le due fasi della lavorazione di Hammett.
Rimasto momentaneamente disoccupato dopo lo stop intimato da Coppola, Wenders, nel dicembre del 1980 si reca a Sintra, in Portogallo, per una visita al set di “The territory” di Paul Ruiz.
Dall'idea del nuovo film, suggerita dalla scoperta di un hotel fatiscente e abbandonato in riva all'oceano, alla sua realizzazione — giusto contraltare all'estenuante odissea di “Hammett” — non c'è che un passo: messa in piedi in breve tempo la produzione, il febbraio successivo Wenders, con la stessa troupe di Ruiz e, come ai bei tempi, sulla base di un soggetto appena abbozzato e sviluppato di giorno in giorno con Robert Kramer, gira in cinque settimane quello che è forse il suo film più sofferto e personale. Quell'hotel in disarmo, solitario e fatiscente, situato su una spiaggia battuta incessantemente dalle onde dell'oceano; quella troupe cinematografica che bivacca aspettando il ritorno del produttore che dovrebbe consentire il completamento del film e che invece non arriva; quell'atmosfera di attesa, di noia, che causa lo smarrimento del proprio ruolo e la conseguente disponibilità a “nuove storie”, più reali e più pressanti, che lentamente prendono il sopravvento ricacciando quella del film da realizzare (la più importante, la ragione di vita dei personaggi) in un angolo buio della mente; tutto ciò non può non ricordare la vicenda dello scrittore Howard Ingham che staziona, inattivo, in un villaggio turistico della costa tunisina in attesa dell'editore e incapace di portare a termine il suo libro.
Difficile presumere, in Wenders, un preciso intento rievocativo nei confronti del precedente letterario. Si tratta, piuttosto, di assonanze, di echi lontani, seppur nitidi, determinati dalle affinità esistenti tra il regista e la scrittrice americana, lo stesso rapporto, insomma, che lega “Alice in den städten” all'handkiano “Breve lettera del lungo addio”.
Indovinata questa matrice autobiografica, “Der stand der dinge” non può non apparire come una summa dell'opera wendersiana, un ampio contenitore nel quale confluiscono, programmaticamente, temi, motivi, figure, immagini del suo cinema.
Districandosi in questa fitta selva di richiami e autocitazioni, riscontriamo, ad esempio, la presenza ossessiva di mezzi di comunicazione quali il telefono, la radio, il registratore, il computer, l'orologio, la fotografia, la musica, la pittura, il cinema.
Wenders, ancora una volta, affronta il conflitto che attraversa e lega l'intera sua opera, vale a dire quello fra due diverse concezioni, l'una descrittiva, e l'altra narrativa, del fare cinema.
Il regista tedesco assume il contraddittorio atteggiamento di chi sceglie uno sguardo fenomenologico che lascia intatta la continuità spazio-temporale del reale e, contemporaneamente, avverte il fascino di una narrazione dinamica ed ellittica, che seziona, manipola, perfeziona la realtà.

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