07 settembre 2009

Nanni Moretti — diario di un moralista (2008)

Nanni Moretti ha iniziato l'attività cinematografica alla metà degli anni settanta, lavorando con lo standard amatoriale Super 8 e realizzando un'originale parodia dei Promessi Sposi nel mediometraggio “Come parli frate?”.
Nel 1976 ha realizzato “Io sono un autarchico”, al quale hanno fatto seguito “Ecce bombo” (1978), “Sogni d'oro” (1981, premio speciale della giuria alla mostra di Venezia), “Bianca” (1984), “La messa è finita” (1985), “Palombella rossa” (1989), “Caro diario” (1993), “Aprile” (1998), “La stanza del figlio” (2001, Palma d'oro al festival di Cannes), “Il caimano” (2006).
Il successo del pubblico arriva già con “Ecce bombo” nel quale sono evidenti i temi, che caratterizzeranno tutto il lavoro successivo di Moretti: l'impegno politico e la denuncia sociale raccontate con accattivante ironia.
Autore precoce ma non prolifico, introverso e scorbutico, intelligente e tormentato quanto basta per essere artista, Nanni Moretti costruisce film soltanto quando ha qualcosa da dire. Qualcosa di importante.
È trascorso un trentennio da quando — era un remoto dicembre del 1976 — ventitreenne e sconosciuto autore proiettava, in un minuscolo cinema d'essai, il suo debutto nel lungometraggio girato in Super 8, “Io sono un autarchico”. Non molti, forse, avrebbero scommesso sulle fortune di quel giovanotto rigoroso e un poco egocentrico, destinato invece a divenire il regista più rappresentativo della sua generazione.
È certo che il cineasta romano ha saputo mettere in scena le angosce esistenziali di un individuo che affronta una società priva di punti di riferimento etici e ideologici: giungendo poi a parlare senza mezzi termini — in “Caro diario” (1994) e “Aprile” (1998) — del proprio impegno ideologico e addirittura a vivere davanti alla macchina da presa le angosce della malattia e le gioie della paternità.
Tempo fa il suo coetaneo Enrico Ghezzi con un'intuizione discutibile ma suggestiva sosteneva: in realtà Moretti non è affatto un grande regista, ma un abile giornalista, attento nel raccontare le mutazioni della società italiana. Tesi che spiegherebbe l'insofferenza di Moretti per i giornalisti: fanno male quello che lui farebbe benissimo. Per Morando Morandini, un critico che lo stima senza però considerarsi morettiano, lui è il nostro Woody Allen. «Allen è un umorista, Nanni un moralista, ma a renderli in qualche modo simili è la loro abilità nel fare gli imprenditori e nel
potersi permettere di lavorare fuori da ogni schema. Nessun altro regista gode di un simile privilegio. Nemmeno Steven Spielberg può sfuggire alle leggi del mercato. Loro invece sanno di poter contare su un pubblico fedele, disposto comunque a seguirli». L'eclettismo professionale di Moretti appare davvero avvolgente: gli consente di fare il regista, l'interprete, il produttore, anche di film di altri autori, distributore, l'esercente.
Aiutato da uno sguardo di furibonda, quasi allegra esasperazione e da un corpo sportivo allenato nella nazionale giovanile di pallanuoto, è dotato di una scontrosa capacità seduttiva.
Megalomane, capace di girare la stessa inquadratura 37 volte, nevrotico e terrorizzato dalla psicanalisi, presuntuoso, egocentrico, isterico.
Ma anche pudico, orgoglioso, perbene, un grande lunatico che in realtà alle acrobazie preferisce il buonsenso.

Palombella rossa (1989)
Michele Apicella, deputato comunista con l'hobby della pallanuoto, perde la memoria a causa di un incidente. Non sa più chi è, cosa ha fatto, cosa dovrebbe fare. Amnesico e nevrotico, si aggira sullo schermo perplesso e spande il suo livore sul mondo, contro quelli che parlano per frasi fatte, quelli che spacciano per propri i pensieri altrui, quelli che hanno rinunciato definitivamente a pensare. È un moralista che fustiga le brutture e le banalità del mondo con salutari pugni allo stomaco. E obbliga tutti a ricominciare, finalmente, a pensare.
La storia va a sdoppiarsi tra fasi della contesa sportiva in piscina e una sorta di flashback della memoria sforzata da Michele. Intanto, egli ritorna all'infanzia, alla prima giovinezza, a questo suo sport preferito, alla militanza politica.
La metafora di “Palombella rossa”, dimostra una maturità compiutamente raggiunta e la presenza d'una crisi, di uno smarrimento, ideologici emblematici. Con sentimenti forse anarcoidi, facendo parlare molto sé stesso e le figure che l'attorniano, nel turbinio di scene e scenette che si sovrappongono con bella sintassi cinematografica, Nanni Moretti intende rivedere soggettivamente le ipocrisie e le contraddizioni della società in cui viviamo, ma anche uno status finora amato.
Questa sua amnesia, questa sua ricerca del ricordo, della memoria, la dicono lunga, con acre ironia, su un certo mondo politico che non ha ancora trovato nuove strade. Moretti in “Palombella rossa” si rivela regista di molti umori e di stile unitario, sempre nitido, consapevole e significativo.
Nanni Moretti attore è interessante almeno quanto il regista: tramuta i difetti (una voce sorda, opaca, una recitazione dilettantesca) in pregi naturalistici: le battute mordenti muovono ora al riso schietto, ora alla riflessione. Prevale sempre sul contorno, spesso scelto tra amici o fra attori non propriamente celeberrimi. Accenniamo qui a Eugenio Masciari (l'arbitro) a Raul Ruiz (il cattolico) a Mariella Valentini (la giornalista) ad Asia Argento (la figlia) al giornalista Giovanni Buttafava (lo psicanalista). Da ricordare anche Silvio Orlando, Alfonso Santagata, Claudio Morganti e Imre Budavari: tutti al servizio del mattatore. Tutti lo inseguono senza tregua, tutti vogliono ricordargli chi è e dimostrargli il suo fallimento. Tra una pausa e l'altra dell'eterna partita tra il pallanuotistacomunista e il resto del mondo, ai bordi della vasca si giocano alcuni gustosi intermezzi “densi di acidi succhi morettiani”, per dirla alla Paolo D'Agostini.
Come tirare le somme? Sono talmente fitti lungo tutto il film gli interscambi allusivi tra competizione sportiva, lacerazioni esistenziali e messaggio politico che non basterebbe una pagina per farne l'inventario. Così come vano sarebbe tentare di tener dietro al sempre più convulso, caotico intersecarsi di interventi che fanno da sfondo alle nevrosi morettiane. Un accumulo che forse appesantisce il film, in un contraddittorio convivere tra sfilacciamento narrativo (parente più di Sogni d'oro che di Bianca e La messa è finita) e crescente tensione emotiva, ma che ben rende il generoso sforzo di “pensare a tutto” senza risparmio di sé, compiuto da un autore che espone debolezze, sentimentalismi, aspirazioni e idiosincrasie con disarmante sincerità, senza più alcuna reticenza.

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