04 settembre 2009

Michelangelo Antonioni — l'avventura di un maestro dello sguardo. (2007)

29 settembre 1912, 30 luglio 2007, due date, un'esistenza. In questo scorcio d'estate abbiamo perso un occhio che guardava il mondo, il paesaggio, la figura umana, i segni contraddittori della modernità.
Michelangelo Antonioni è stato uno dei più grandi artisti del XX secolo, un poeta della società che cambia, un pittore del labirinto delle nostre affannose ricerche di senso, un fotografo della nostra ambigua realtà. Antonioni era figlio della buona borghesia ferrarese, laureato in economia e commercio (con una tesi sull'economia politica nei Promessi Sposi), ha lavorato come critico al Corriere Padano e ha preso per la prima volta una cinepresa in mano, per un esperimento in un ospedale psichiatrico. A Parigi è assistente, nel 1942, di Marcel Carné per “Les visiteurs du soir”.
Nel 1943 avvia un documentario “Gente del Po” che a causa della guerra terminerà quattro anni dopo, partecipa ad alcune sceneggiature, scrive soggetti (anche per Visconti), realizza alcuni brevi, suggestivi documentari (“N.U.”, “L'amorosa menzogna”) e giunge nel 1950 al lungometraggio, procedendo controcorrente rispetto al neorealismo.
Michelangelo Antonioni era un regista intellettuale, raffinato, colto, rigorosissimo. L'alienazione dell'individuo era il suo tema continuo e dolente. “Cronaca di un amore” (1950), “I vinti” (1952), “Le amiche” (1955, tratto da un racconto di Cesare Pavese) sono i frutti dell'esperienza borghese ridata, sul tono della cronaca in stile asciutto e scabro. Nel 1957 gira “Il grido” dove racconta il tormento di vivere, l'incertezza dell'essere, di un operaio della pianura padana sommersa dalla nebbia.
Nella trilogia dedicata alla donna de “L'avventura” (1959), “La notte” (1961, ottime le musiche di Giorgio Gaslini), e “L'eclisse” (1962), il contenuto cede la preminenza all'impostazione filosofica.
Con “Deserto rosso” (1964) il regista ha tentato il colore, portato successivamente ad altissimi effetti in “Blow up” (1966), dove è usato in funzione di linguaggio.
Nella trilogia sulle incomunicabilità, tre momenti di uno stesso discorso che si fa sempre più chiuso e sconsolato, Antonioni focalizza e sviluppa motivi stilici: il montaggio nel quadro. La macchina da presa indugia a riprendere elaborati movimenti degli attori, lunghi dialoghi, l'inquadratura ha una durata eccezionale. E' un indugio, come una nota musicale lunga, ossessiva.
Mentre sul piano tematico analizza la malattia dei sentimenti, nei suoi film l'amore non è mai felicità, compimento, risoluzione; esso è, un sentimento tetro e lacerante, un tormento, un movimento verso la morte. Anche nella scelta della tipologia dei personaggi si scopre una netta propensione: la donna è sempre vista come possibilità di percepire gli attriti e le difficoltà come filtro della crisi, più istintivamente legata alla recettività.
Fra le tappe successive da ricordare “Zabriskie point” (1970), un film in cui sui dati esistenziali e politici prevalgono quelli simbiotici: il volo come desiderio di getting out, di distacco dal quotidiano, il deserto come luogo di incontro tra amore e morte. Il film è ricordato soprattutto per la scena dell'esplosione immaginaria. Fu girata con particolari accorgimenti e con l'ausilio di 17 macchine da presa sincronizzate su vari gradi di ralenti. Nel 1975 esce “Professione reporter”, forse il suo film più intenso e innovativo. Nella scena finale reinventa le leggi del tempo e dello spazio cinematografico con un arditissimo piano-sequenza, un'interminabile combinazione di carrellate e panoramiche che fa impallidire anche gli addetti ai lavori.
In seguito lavorerà poco e con fatica “Il mistero di Oberwald” (1980), Identificazione di una donna” (1982), “Al di là delle nuvole” (1995), “Eros” (2004). E' difficile non condividere le parole di Fernaldo Di Giammateo: “Pur con tutte le manchevolezze (squilibri narrativi, dialoghi gracili), questa filmografia rimane una delle pietre miliari della storia del cinema. Uno dei segni più significativi della modernità”.
Anche Martin Scorsese non ha mai nascosto l'ammirazione sconfinata per il maestro ferrarese: “Progressivamente sono arrivato a capire i vari livelli a cui Antonioni lavorava: il legame ontologico tra i personaggi e l'ambiente attraverso l'uso dei totali, la riscoperta del piano sequenza per descrivere il tempo reale, la sottile percezione degli oggetti e dello spazio, la precisione delle sue inquadrature, l'austerità della sua visione. Ho sentito la mano di un grande artista contemporaneo, che mi guidava in un viaggio attraverso i paesaggi emotivi che fissavano il vuoto normale del nostro tempo”.
Oggi siamo consapevoli che con la morte di Michelangelo Antonioni perdiamo uno dei maggiori e brillanti creatori d'immagini in movimento, perdiamo la sua complessa limpidezza espressiva così lontana dai cliché, il suo essere un purissimo talento astratto. Ci lascia un deposito di idee e suggestioni invidiabile, la sua ampiezza di respiro è un'eredità intellettuale che andrà assorbita e fatta decantare; per dare risposte adeguate, efficaci e meditate alle sue autoriflessioni sull'arte, il ruolo del cineasta, la funzione del cinema: perché “noi sappiamo che sotto l'immagine rivelata ce n'è un'altra più fedele alla realtà, e sotto quest'altra un'altra ancora, e di nuovo un'altra sotto quest'ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai.
O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine di qualsiasi realtà”.

“L'avventura” è stato uno dei film più travagliati del regista. Ha scritto Antonioni in una lettera: “Mi è capitato di tutto. Scioperi della troupe e di attori. Sostituzione di produttori. Cinque settimane su un'isola senza che nessuno di noi ricevesse l'ombra di un qualsiasi compenso; e a un certo punto non sapevamo più nemmeno da chi dovevamo riceverlo. Siamo rimasti bloccati più notti sullo scoglio di Lisca Bianca, senza coperte e senza cibo. Veramente dei naufraghi”.
“L'avventura” è strutturato come una sorta di giallo psicologico, contiene tutti i temi cari al regista: la precarietà dei sentimenti, l'incomunicabilità, l'indagine delle figure femminili.
Estremamente suggestiva la presenza del paesaggio siciliano fotografato in un eccellente bianco e nero da Aldo Scavarda: evitando ogni compiacimento folkloristico, l'autore gli ha affidato un ruolo quasi preminente, utilizzandolo per frammentare il ritmo dell'azione e per esprimere l'estraneità dei personaggi agli ambienti che li ospitano.
“Non so se sarà il mio film più bello, so che sarà il più caldo”, dichiarò Antonioni mentre girava “L'avventura”. Filiforme ed elementare la storia: Anna, una ragazza borghese, è l'amante di Sandro un giovane architetto, viene invitata con l'amica Claudia sullo yacht d'un ricco costruttore. I croceristi sbarcano su uno scoglio delle isole Eolie. Ai primi segnali di una tempesta tutti tornano verso l'imbarcazione, e si accorgono che Anna è sparita. Sandro e Claudia restano per continuare le ricerche. Lentamente, tra di loro nasce un rapporto d'amore e, segretamente, ciascuno spera che la sparizione di Anna sia definitiva.
Assai più persuasivo, come sempre in Antonioni, il ritratto del personaggio femminile, di Claudia.
Una donna che diviene adulta attraverso il dolore. La suggestiva presenza di Monica Vitti viene qui, per la prima volta, posta al servizio di una figura emblematica di donna che avverte, attraverso una inquieta e trepida ricettività dei sentimenti, la precarietà e l'assenza di autentici rapporti nel mondo che la circonda. E il finale, con lo sciogliersi del nodo di aridità, di vigliaccheria, di stanchezza nel pianto doloroso e sommesso di Sandro e la maturazione dolente di Claudia, il coraggio della donna, e il coraggio della pietà questa volta, è una delle cose più belle di Antonioni.
Tutta la vicenda si articola attraverso il flusso ininterrotto dei comportamenti umani. I personaggi si muovono, esitano, soffrono, agiscono in maniera del tutto naturale. Antonioni non insegna alcun mistero e non cerca alcuna trascendenza.

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