07 settembre 2009

La tempesta Greenaway (2008)

Con Peter Greenaway prosegue l'esplorazione dei territori del cinema attraverso la conoscenza di importanti personalità autoriali.
Figura di artista dai molteplici interessi: illustratore, curatore di mostre, scrittore, critico, videoartista e regista cinematografico. Peter Greenaway è così: tanti interessi, poetica strabordante di elementi significativi sino alla saturazione.
Figlio di un impresario edile e ornitologo dilettante, studia pittura al Walthamstow Art College, rivela un temperamento sicuro e allucinato. Nel '65 è assunto dal Central Office of Information come montatore.
Per conto proprio, gira cortometraggi sperimentali (Train, Tree, Revolution, Intervals) , raccoglie materiali sparsi realizzati in varie occasioni e compone 92 situazioni secondo il criterio della musica aleatoria di John Cage e nello spirito accumulatorio di una enciclopedia (The falls, 1980). È la strada, segnata dai numeri e dalla composizione dentro una struttura visiva, che lo conduce al
primo, affascinante successo, I misteri del giardino di Compton House (1982), storia di un disegnatore — siamo nel 1694 — ingaggiato per comporre dodici “visioni” di una villa e trascinato a poco a poco in un gioco perverso dove si confondono sesso, avidità, potere e delitto. Da film a film le perversioni crescono di numero e di intensità, per una sorta di furore manieristico.
Peter Greenaway fa cinema con tutto quello che c'è al mondo: acqua, colori, carne, matematica, illusioni ottiche, architettura. Greenaway è quel signore che nello Zoo di Venere (1985) ha indagato sulla velocità di decomposizione dei corpi, in Il ventre dell'architetto (1987) ha chiuso un uomo nell'Altare della Patria e in Giochi nell'acqua (1988) ha usato il liquido primordiale per eliminare personaggi adulti. Non è improbabile che l'ossessione degli animali gli arrivi dal padre ornitologo, quella dei numeri e delle simmetrie da Borges, quella delle prospettive dal fatto di essere pittore.
I suoi film in effetti prima si vedono, poi si guardano e infine si percepiscono.
Greenaway nato nel 1942 in Galles si è convertito alla macchina da presa grazie al film di Bergman Settimo sigillo: la scoperta che si potessero mescolare in un'unica opera simbologie e metafore, nozioni di gioco e di filosofia, gli scacchi con la mitologia della morte, gli ha dato la convinzione che il cinema non fosse solo una storia da raccontare. E ad ogni film sposta in avanti il suo discorso sul cinema. Il cinema? “Forse deve ancora nascere”, provoca Greenaway. “È immagine, ma il 95 per cento dei film nascono come testi scritti. In cento anni di vita non ha ancora trovato una sua identità, è per lo più teatro filmato, non è riuscito a unire immagine e scrittura”. E il cinema del futuro? “Immagino una full-immersion emotiva, una performance totale che coincida con tutti i nostri cinque sensi”.

I racconti del cuscino
Ispirato a The pillow book, il classico della letteratura giapponese scritto attorno all'anno mille, il film ci racconta di una dama di corte che, educata dal padre all'antica arte della calligrafia, si diletta a farsi ricamare ideogrammi sulla pelle dai suoi numerosi amanti. Finché si innamora di un inglese e invertirà le parti: sarà lei a scrivere tredici libri calligrafici sulla pelle di lui, e a trasformarlo in un testo fitto fitto sull'amore e infine sulla morte.
Il corpo, dunque, si fa testo e opera d'arte.
Greenaway, sperimentatore estremo di linguaggi, spaziando dalla video-art alla pittura obbliga lo spettatore a frantumare il proprio sguardo. Sullo schermo, infatti, si aprono riquadri che tagliano il fotogramma come le finestre di un Macintosh, il colore convive con il bianco e nero, le immagini sono attraversate da ideogrammi e scritte in inglese, francese, giapponese, cinese.
E, mentre il racconto interseca più dimensioni temporali (il giappone antico, l'infanzia della protagonista, la sua vita nella Hong Kong di oggi), chi guarda è obbligato a muoversi contemporaneamente su più livelli di spazio e di linguaggio. A fondere erotismo, cinema e letteratura.
Greenaway condensa qui tutte le sue magnifiche ossessioni: la sensualità rituale, il gusto per la scrittura, le suggestioni pittoriche, il culto del libro, il corpo-metafora.
Insoddisfatto del cinema, che ritiene si sia evoluto molto poco nel corso di un secolo rispetto alla pittura e letteratura, dove invece sono avvenuti cambiamenti importanti nello stesso arco di tempo, Greenaway è alla ricerca di nuovi linguaggi cinematografici. Provocatore colto e raffinato, esperto di numeri, di simbologia e di linguistica, ama le citazioni secondo il principio dei tableaux vivants, come se la pittura, da cui proviene e che continua a considerare la più esplorativa e radicale tra le arti, potesse entrare nel cinema funzionalmente, per necessità di comunicazione e di espressione; così per I racconti del cuscino si è ispirato al mezzo pittorico-letterale della tradizione calligrafica orientale, che propone come linguaggio ideale per un cinema ideale.

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