07 settembre 2009

Il cinema? Lo specchio di Bergman (2008)

Come i vecchi soldati, i registi cinematografici non muoiono, quanto piuttosto scompaiono “in dissolvenza”, e gli ammiratori si attendono sempre l'ultimo capolavoro, suggello della loro carriera.
Molti cineasti che hanno messo tanto di sé nella propria opera si sono anche preoccupati di proteggersi, di dissimularsi.
Bergman ha messo tutto nei suoi film. C'è per intero: nudo, al tempo stesso illusionista e reo confesso di questa illusione, vulnerabile e inaccessibile, umano e insondabile. Figlio di un pastore della corte reale svedese, Ingmar Bergman era nato nel 1918. Dopo aver esordito come regista teatrale, ha alternato a questa attività quella più nota di regista cinematografico. Ha firmato oltre 30 pellicole in cui appaiono centrali i temi del divino e dell'amore. Uomo dalla psicologia tutt'altro che semplice, Bergman possiede il peculiarissimo dono di attirare su di sé l'attenzione. Viene chiamato a dirigere un grande teatro a soli 25 anni.
Si sposa e divorzia più volte. Crea una serie di capolavori sul finire degli anni cinquanta: “Il settimo sigillo”, “Il posto delle fragole”, “La fontana della vergine”. Ha uno scontro con la censura in molti paesi per una scena di un realismo crudo e audace nel film “Il silenzio” del 1963. Raggiunge elevatissimi indici di gradimento con la sua prima serie televisiva “Scene da un matrimonio”.
Si ritira in volontario esilio a seguito di uno scandalo fiscale che coinvolge la sua casa di produzione.
Rivette disse di Rossellini: “Non dimostra, mostra”. E si potrebbe usare un'altra espressione usata per Rossellini, quella dell'entomologo che depone gli insetti in una scatola e poi ne segue, ne scruta, ne analizza i movimenti senza intervenire, ma mentre il percorso per Rossellini è la storia, per Bergman è la filosofia.

Il settimo sigillo
Scriveva Bergman a proposito del film: “A quel tempo ero ancora duramente legato alla problematica religiosa. Qui sono compresenti due opinioni in proposito. Ognuna di esse parla la propria lingua. Perciò regna una relativa tregua tra la devozione infantile e l'aspro razionalismo.
Non ci sono complicazioni nevrotiche tra il cavaliere e il suo scudiero. E così è con la santità dell'uomo. Jof e Mia rappresentano qualcosa di urgente: tolta la teologia, rimane il sacro”.
Siamo nel '300, in Svezia: un cavaliere, Antonius Block, torna al suo castello dopo dieci anni di assenza, dopo aver preso parte a una crociata durante la quale anziché trovare o ritrovare la fede è stato invaso dal dubbio. Il paese è in preda alla pestilenza, l'Apocalisse sembra imminente; la religione non è più in grado di offrire conforto alla gente atterrita. Raggiunto anch'egli dalla Morte, Antonius inizia con essa una partita a scacchi, intendendo approfittare del lasso di tempo così concessogli per comprendere quale sia la meta finale del viaggio di cui è ormai giunto al termine.
Ma nessuno può diradare il silenzio e le tenebre in cui egli si sente immerso: nemmeno la Morte, che essa stessa non sa nulla e gli risponde “non mi serve sapere”; l'unica vera risposta il cavaliere la riconosce nel modo di vivere di una famigliola di attori girovaghi, nei quali letizia e fiducia nell'avvenire sopravvivono a ogni umiliazione, ogni tristezza. Ed egli accetterà volentieri di perdere la partita a scacchi, pago d'esser riuscito a distrarre la Morte consentendo così alla famigliola di sfuggire, pago di aver ritrovato un rapporto di solidarietà coi propri simili.
La validità de Il settimo sigillo va ricercata nella straordinaria ricchezza di notazioni psicologiche e descrittive, la folla di ritratti schizzi profili, e le stesse digressioni acquistano una loro verità di inconsueta evidenza; sul piano della coerenza figurativa, in secondo luogo, poiché il pittorismo di Bergman (bene coadiuvato da un eccezionale fotografo Gunnar Fischer) sa comporre tutte le immagini in un quadro armoniosissimo, nel quale ogni particolare acquista un pieno risalto plastico — basti ricordare l'esordio in riva al mare e poi sul pianoro deserto, e la citata processione, e la notte di tregenda e l'arrivo della comitiva al castello; sul piano della dialogazione infine, in quanto ne Il settimo sigillo il dialogo ha una validità letteraria, una nobiltà, un vigore quali è raro trovare in un'opera cinematografica: si pensi soltanto al colloquio tra il fabbro e lo scudiero a proposito della malizia delle donne.

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